STORIA DELLA CHIESA DELLA BEATA VERGINE MARIA E DI SANTA TECLA
Fin dal secolo XIII è documentata all’esterno della Porta Carratica una Ecclesia S. Georgii in Cambernandi, che dopo la costruzione del terzo cerchio delle mura era ancora extra Portam Caldaticam. Nei verbali delle visite pastorali la Chiesa di S. Giorgio sembra comparire per l’ultima volta agli inizi del Cinquecento. Non è del tutto certo che vi sia un diretto riferimento tra questa antica Chiesa di S. Giorgio e la chiesa dell’Oratorio della Beata Vergine Maria posta fuori di Porta Carratica „alias La Vegine”, che nel secolo XVII era compresa nel territorio parrocchiale di S. Giovanni Fuorcivitas, ma esercitava cura d’anime per i parrocchiani di S. Giovanni, di S. Paolo e di S. Maria Nova che abitavano fuori dalla città
La chiesa fu eretta in parrocchia nel 1783 dal vescovo Scipione de’ Ricci a servizio del territorio suburbano fuori Porta Carratica, ed i suoi confini furono fissati con decreto del 20 marzo 1786. Risale a quest’epoca l’aggiunta, come contitolare, di S. Tecla (seguace di S. Paolo, vergine e martire). La chiesa, ristrutturata nel secolo XVIII, fu distrutta nel bombardamento aereo del 18 gennaio 1944.
Le complesse vicende costruttive della chiesa delle Sante Maria e Tecla hanno origine, come per la chiesa di Collina, dalla necessità di ricostruire un antico edificio religioso andato distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il progetto, affidato a Giovanni Michelucci sin dal 1947, prevede l’individuazione di un nuovo sito destinato ad accogliere la costruzione, lontano dall’originaria e infelice ubicazione presso la porta Fiorentina e attiguo al cimitero della Vergine, nella periferia sud-est della città.
Lo stesso Michelucci ricorda il lungo iter progettuale, che prende avvio da un’idea architettonica, ironicamente definita dall’autore come “geniale“, che prevede la realizzazione di un edificio apparentemente instabile, caratterizzato da una facciata inclinata verso l’interno e da una copertura inflessa verso il presbiterio. La pianta, di dimensioni ridotte, presenta un presbiterio a forma trapezoidale e in facciata, in posizione asimmetrica, un corpo a L come cappella per i matrimoni e battistero. Il progetto riceve numerose critiche, sia per le forme architettoniche ritenute ambigue e non chiaramente riferibili alla funzione religiosa della costruzione sia per il dimensionamento considerato insufficiente. Una soluzione successiva introduce alcuni elementi poi mantenuti nel progetto definitivo (tetto a capanna, tripartizione dell’ingresso), prevedendo però una struttura muraria in pietra mista a telaio in cemento oltre una ricca decorazione in facciata.
I ridotti finanziamenti statali impongono un nuovo ripensamento e portano alla soluzione approvata dalle autorità religiose nel 1950. L’ampiezza della navata e l’altezza dei bracci del transetto sono ridotti, il campanile, separato dalla chiesa, diventa un elemento architettonico autonomo; prevale la ricerca di un’essenzialità di forme “di spirito francescano” che si ripercuote anche nella scelta dei materiali (mattoni, cemento armato e rivestimento in pietra per il basamento). Cambia lo studio dell’illuminazione che nel nuovo progetto è ricavata da limitate finestrature nella zona presbiteriale e da semplici feritoie aperte sulle pareti laterali e in facciata. I lavori, affidati alla ditta Minnetti, hanno inizio solo nel 1954 dopo un aumento dello stanziamento statale, ma sono presto interrotti per problemi di ordine statico posti dalla ditta appaltatrice che considera eccessivo il carico dovuto alla copertura a volta della chiesa. La riapertura del cantiere avviene nel 1955 sotto la guida del l’ing. pistoiese Rauty e comporterà la sostituzione della volta con capriate in cemento armato. I lavori condotti dall’impresa bolognese “Costruzioni edili industriali” guidata da Mario Fabbrini e Renzo Sansoni, colleghi di Michelucci alla facoltà di ingegneria, sono conclusi un anno dopo.
In questa circostanza il rapporto con la Comunità Parrocchiale è molto forte, come testimonia la corrispondenza tra Michelucci e don Alfredo Alderghi, riportata da Pelamatti e Frintino; il tono è rispettoso e molto cordiale; questa collaborazione non si concluderà con la fine dei lavori, ma proseguirà anche successivamente, con al scelta degli ornamenti interni e la realizzazione delle stazioni della Via Crucis affidate nel tempo ad artisti diversi. A differenza della Chiesa di Collina, la Chiesa della Vergine ai parrocchiani, forse parchè, come sostiene Michelucci stesso, “porta con sé un po’ di quel che è già nella città; è, cioè, pistoiese.
L’edificio sobrio della chiesa e paragonabile secondo Giovanni Klaus Koenig a “una semplice ed alta aula francescana“. Il processo creativo non trae spunto, come nel caso quasi contemporaneo della chiesa di Collina, dal contesto ambientale, certo meno significativo, ma si ispira, almeno nella redazione finale, alla tradizione costruttiva degli ordini mendicanti e in particolare al fianco della chiesa di San Domenico a Pistoia. La necessità di richiamarsi al passato è esplicitamente dichiarata dallo stesso autore e si collega a una visione dell’architetto quale interprete delle esigenze popolari piuttosto che del proprio impulso creativo. L’effetto finale non è comunque convenzionale, ma sfrutta sapientemente l’alternanza dei materiali, la pietra grezza, il cemento armato e il mattone a doppia faccia vista. Su un alto zoccolo in cemento armato, rivestito in pietra, si ergono le pareti costruite in laterizio, la cui superficie muraria, scandita da lesene alternate con risalti di diversa sporgenza, è interrotta solo dai bracci del transetto, piegati in direzione dell’abside.
Particolarmente interessante lo studio dell’illuminazione, elemento comune alla chiesa di Collina, risolto con un sistema di feritoie e alte finestrature in corrispondenza dell’abside e dei transetti. Altrettanto significativo l’emergere della struttura portante, del telaio in cemento armato che fascia il volume della chiesa suddividendo la cortina in laterizio e si ripropone all’interno nelle capriate della copertura per diventare tema centrale dell’architettura del campanile. Il campanile è un corpo indipendente, costituito da un traliccio in cemento armato con scale a vista poggiante su un alto basamento a scarpata.
All’interno della chiesa lo spazio austero e semplice, è scandito, sui lati lunghi della navata, da un susseguirsi di paraste nella parte alta, e inferiormente dalle nicchie in cemento armato ospitanti le stazioni della Via Crucis, grandi figure scolpite da più artisti, a partire dagli anni sessanta, utilizzando materiali diversi, terracotta, pietra o cemento.
La navata unica è preceduta da una sorta di pronao che ospita a sinistra il fonte battesimale (attuale Capella della Madonna) e a destra una cappella per i matrimoni (attuale Cappella di padre Pio). I bracci del transetto convergono verso l’aula incrociandosi nell’altare maggiore, mentre gli altari minori occupano gli spazi estremi degli stessi bracci; contemporaneamente si definisce lo spazio dietro l’altare, costituito dal coro e dalle sacrestie.
(dal Vicipedia e il libro “Giovanni Michelucci e la Chiesa italiana”, ed. San Paolo 2009)
CROCIFISSO DI JORIO VIVARELLI
La scultura compiuta e posizionata dietro l’Atare Maggiore viene inaugurata la Notte di natale del 1957. L’evento suscita grando ed immediato scalpore. Mai prima dia allora si era visto un volto di Cristo così atrocemente devastato dal dolore e dallo smarrimento della morte.
Il Corpo dell’Uomo, perso il soffio della vita, diventa materia grezza graffiata, scavata e deturpata dall’insensatezzza del peccato.
Il grande Crocifisso ligneo, con il corpo che pesantemente scivola giù lungo il legno della Croce, appare infatti come sospeso nell’ampio spazio sacro dell’unica navata.
Il Cristo crocifisso dal volto scarnito, con la bocca urlante, gli occhi sconvolti dall’orrore, diventa icona universale del dolore e della sofferta condizione dell’uomo nella storia del mondo.
Un Cristo invendicato che chiede agli uomini di non ripetere più l’orrore dell’uomo che uccide altri esseri umani, ma di render agli altri l’amore che Lui, Figlio di Dio, Creatore di Vita, ha manifestato con il supremo sacrificio di sé stesso, come dice con altri versi Vivarelli. “Ancora una volta, l’urlo è uscito dalla bocca spenta. Ancora una volta sei caduto; poi ricaduto ancora nella tua stessa cenere”.
(dal libro: Veronica Ferreti, Jorio Vivarelli scultore. La materia della vita, Verona 2007)
Dal 15 ottobre 2010 la Chiesa porta nome: “Chiesa della Beata Vergine Maria e di Santa Tecla”.